Era il 2009, quando venne annunciato il first person tactical military shooter, Six Days in Fallujah , sviluppato da Atomic Games, che doveva essere pubblicato da Konami. Per via della natura controversa del titolo, basato su reali eventi di guerra del 2004, il publisher preferì poi ritirarsi dal progetto, che non vide mai la luce. Fino a qualche giorno fa. Cominciamo guardando assieme il trailer, e poi procediamo con un’analisi dei motivi per cui sorgono molti dubbi su questo titolo.
“A moment of truth”
“A moment of truth“. Questa la frase alla fine del filmato di presentazione del gioco. A portarlo sul PC nel 2021 sarà lo studio di sviluppo Highwire Games, con publisher Victura, fondato dal CEO di Atomic Games, Peter Tamte. Il team ha collaborato con diversi soldati americani che hanno vissuto quei momenti. L’obiettivo dichiarato, visibile nella pagina “Why” sito ufficiale, sarebbe ricreare la loro esperienza nei giorni della battaglia. Traduco dalla pagina.
“Quando abbiamo annunciato Six Days in Fallujah nel 2009, abbiamo appreso che alcune persone credono che i videogiochi non dovrebbero approcciare eventi reali. Per questi, i videogiochi sembrano più un giocattolo che un medium in grado di comunicare qualcosa di significativo. Siamo in disaccordo. Crediamo che cercare di fare qualcosa da noi può aiutarci a capire non solo cosa è successo, ma perché è successo in un certo modo. I videogiochi possono connetterci in modi che altri tipi di medium non possono.
sixdays.com/why
Nulla da dire sul medium videogioco: immagino che se state leggendo queste righe, lo consideriate al pari di altri tipi di opere, e con le proprie unicità. Una spia rossa si accende invece nel momento in cui viene detto “aiutare a capire (…) perché è successo in un certo modo”, confrontandolo con altre dichiarazioni a Polygon, che riporterò a breve.
Un piccolo dettaglio: Atomic Games, prima dell’annuncio di Six Days in Fallujah nel 2009, era in contatto con la CIA per sviluppare simulazioni per l’addestramento per la CIA, e l’FBI. Tornando a Six Days in Fallujah, la prospettiva adottata sembra essere completamente focalizzata sull’America, vista come l’eroica patria che portò salvezza nel luogo, e non mette in discussione la guerra stessa. Stando alle dichiarazioni di Tamte per Polygon, il 10% dell’azione di gioco riguarderà la storia degli abitanti del luogo, ma viste le premesse, preoccupa come questa sarà affrontata. Ignorando le moltissime vittime civili, l’impiego di armi chimiche da parte dell’esercito americano, e buona parte della verità. Facciamo un piccolo passo indietro, con alcune documentazioni.
“La strage nascosta”
Nel 2005, fu realizzato un documentario per Rai News, dal titolo Fallujah, la strage nascosta , di Sigfrido Ranucci e a cura di Maurizio Torrealta, che testimonia l’utilizzo del fosforo bianco e uranio impoverito come armi da parte dell’esercito americano, e l’uccisione di numerosi civili. Potete vederlo a questo link (attenzione, contiene immagini molto forti).
Si è detto che quella in Iraq fosse la prima guerra in presa diretta, che tutto il mondo ha potuto vedere. Falso. L’occidente l’ha vista dal buco della serratura. E anche da un solo punto di vista.
da Fallujah, la strage nascosta
“Un solo punto di vista”. Gli unici giornalisti ammessi sul luogo erano i cosiddetti embedded, ovvero che accompagnavano le truppe americane, dunque “approvati”. Gli altri venivano ostacolati, e solo con fatica era possibile ottenere informazioni di fonti non autorizzate.
“We’re not trying to make a political commentary”
Tornando al sedicente titolo basato sulla realtà, lasciano abbastanza basiti le parole di Peter Tamte, riportate in un’intervista a Polygon (qui il link). Traduciamo parte dell’intervista: “(Tamte) ha insistito che gli sviluppatori non si occuperanno delle macchinazioni politiche che hanno portato al conflitto. Invece, il loro FPS tenterà di generare empatia per le truppe americane nel campo, per il loro lavoro nel debellare gli insorti che si nascosero a Fallujah, e per i civili intrappolati nel mezzo.”
Ma quale realtà vogliono mostrare i developer? Evidentemente, una di comodo, proveniente da una sola parte, come sembra di capire anche da un successivo paragrafo.
Afferma ancora Peter Tamte: “Esistono cose che ci dividono, e credo che includere quegli aspetti divisivi distragga le persone dalle storie umane con cui tutti possiamo identificarci. (…) Ho due preoccupazioni nell’inclusione del fosforo come arma. La prima è che non è parte delle storie che queste persone ci hanno raccontato, dunque non ho una base autentica e fattuale su cui basarlo. È la cosa più importante. Secondariamente, non voglio che qualcosa di sensazionale distragga da parti di quell’esperienza.“
“Storie umane con cui possiamo identificarci”? Quelle di soldati? Credo che questo tweet di Rami Ismail, game dev, parte di un interessante thread, riassuma agilmente il punto della questione: la proposizione della guerra come propaganda.
In traduzione:
“Tamte trova più semplice identificarsi con la propaganda che con la realtà. Trova “divisivi” e non orribili i crimini di guerra. La sofferenza degli Iracheni, dal punto di vista di Tamte, non è umana. Non è riconoscibile. È una persona che cerca di far soldi da una sofferenza umana reale che arriva fino ai giorni nostri.”
Un giudizio su un gioco prima dell’uscita e di averlo provato risulta incompleto, ce lo insegna internet e diversi eventi degli ultimi anni. Tuttavia, credo che le dichiarazioni dello studio di sviluppo, di Peter Tamte e gli argomenti emersi da articoli e discussioni non depongano a favore di Six Days in Fallujah. Sembra di trovarsi quasi al cospetto di una contorta forma di bipensiero, quando viene dichiarato che si sta cercando di raccontare e far vivere la verità, tentando al contempo di mascherarla, mostrando solo il punto di vista dei soldati, relegando a comparse la popolazione vittima di crimini di guerra.
“War has changed”, diceva qualcuno, in un videogioco. Le vecchie pratiche di propaganda, invece, no, a quanto pare.
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