Che il videogioco sia o meno arte è ormai un dibattito sterile: in poco più di cinquant’anni il medium si è sviluppato a tal punto da surclassare produttivamente anche il cinema, evolvendo in tempi rapidissimi e giungendo ad una maturazione estetica insperata fino a qualche decennio fa. Il quesito che ci poniamo in questo articolo non è peraltro legato a suo essere o meno arte (termine che rimane comunque piuttosto vago e limitante), ma al perché sia un’esperienza estetica degna di esser definita tale. Quali sono le caratteristiche che rendono il videogioco autonomo sul piano espressivo? Cosa distingue ad esempio il cinema dal videogioco? E soprattutto, quali sono i giochi più rappresentativi di questa indipendenza linguistica?

A tali domande cercherò di rispondere prendendo come esempio un campione di tre titoli che per un motivo o per un altro sono idonei ad un’analisi approfondita sullo statuto artistico del mezzo. Andrò quindi a delineare in un primo momento quale sia lo specifico del videogioco ed in seguito ad applicare questo nostro strumento teorico alla rosa di cui prima.

Lo specifico

Al fine di veicolare al meglio cosa intenda con il termine di “specifico“, di per sé tautologico, siano posti alcuni esempi: se prendessimo come oggetto d’analisi lo statuto artistico del cinema, sarebbe la fotogenia a fornirci un esempio di “specifico“. Essa è in breve una maggiorazione estetica della realtà ottenuta attraverso gli apparecchi cinefotografici. Teorizzata nella prima metà dello scorso secolo da Delluc prima e Epstein poi, la fotogenia – che in questa sede non andremo per ovvie ragioni ad approfondire – è la caratteristica fondativa del mezzo cinematografico. Quella qualità che discerne esteticamente il cinema dal teatro, dalla letteratura, o ancora dalla fotografia [nonostante per Delluc tale concetto sia applicabile anche all’invenzione di Niepce n.d.r.]. Quell’elemento che qualifica il cinema come medium autonomo. Similmente alla posizione dei due teorici francesi si pone il formalismo russo operante negli stessi anni, individuando tuttavia nel montaggio la peculiarità della settima arte. Che si tratti di fotogenia o di montaggio poco importa in verità ai fini della nostra ricerca. Ciò che interessa è portare due esempi che possano ricondurci ad un univoco significato del termine in esame. Ponendo pertanto come presupposto tale definizione di “specifico” – qui da intendere sicché come qualità intrinseca al mezzo – è bene ora delineare il campo d’azione ponendoci due domande fondamentali.

Cos’è il videogioco?

Il videogioco in quanto medium – e ci teniamo a specificarlo – è per sua natura opera narrativa. È bene peraltro operare un doveroso distinguo tra ciò d’ora in avanti – per esigenze espositive – saremo portati a considerare, e cosa invece verrà aprioristicamente escluso. Se è vero che secondo Warhol l’arte è industria, è altresì corretto evidenziare che, non per questo, tutti i prodotti dell’industria sono degni di nota. Il videogioco è un prodotto di consumo molto più del cinema o della letteratura (che può esistere e resistere anche al di fuori delle leggi di mercato, come affermava Pasolini). Proprio in virtù di ciò – rispetto a qualsiasi altro media – il videogioco parte svantaggiato. Esso è per sua intrinseca natura schiavo dell’industria. È dunque logico assistere annualmente alla produzione inarrestabile di titoli che sono ben lungi dal rappresentare le possibilità del medium. Videogiochi che annullano ogni pretesa di sperimentazione espressiva per imboccare la strada più rapida verso il successo. Non che questo sia un demerito, sia chiaro (anche la settima arte d’altronde ci ha abituato a pellicole fast food).

La nostra vuole apparire solo come una constatazione di fatto: non tutti i videogiochi sviluppano al meglio le proprie potenzialità mediali. Date queste premesse, ne consegue un oligopolio che si stringe attorno ad un gruppetto di mosche bianche, tra case di produzione particolarmente oculate e veri e propri autori del mezzo (Kojima, Levine, Miyazaki etc.).

In seno a questa parentesi è opportuno specificare anche la seconda parte della sentenza d’apertura: il videogioco come opera “narrativa“. Cosa intendere con questo aggettivo? Sembrerebbe limitante relegare le potenzialità espressive del videogioco alla sola affabulazione. Con narrativo intendiamo un ben più ampio ombrello semantico. Il termine, di derivazione greca, vede infatti come significato originario “far conoscere, esporre“. Questa precisazione è fondamentale per non tralasciare lungo il percorso tutta una serie di produzioni che, per scelta autoriale, non rientrano nei canoni di una vera e propria trama unanimemente intesa.

Un’opera narrativa è ontologicamente un’opera discorsiva, capace di raccontare senza il bisogno di fabula e/o intreccio. In grado di portare avanti un discorso che può prescindere dalla trama.

Come non citare a tal proposito Flower (2009) della thatgamecompany. Un titolo di sicuro spicco nel panorama videoludico ma che è difficilmente ascrivibile al troppo limitato modello narrativo base. Un prodotto in cui la tematica ecologista prescinde a conti fatti da uno sviluppo di trama, per incarnarsi efficacemente nella sola esperienza visivo-interattiva. Lo studio statunitense ci ha in sintesi dimostrato che il videogioco può raccontare anche nei suoi silenzi e nelle sue astrazioni.

Flower (2009) della thatgamecompany

Da quali arti è dipeso e/o continua a dipendere?

Appare quanto mai naturale alla luce di quanto espresso nelle righe precedenti che se dovessimo rintracciare un campo di battaglia dove opporre il videogioco alle altre arti, questo sarebbe da identificare opportunamente nel racconto” come veicolazione espositiva. Ciò mi porta a differenziare per chiarezza di informazione il concetto di “storia” (il che cosa?) dal concetto qui espresso di “racconto” (il come?). La storia è in breve lo sviluppo cronologico dei fatti, il racconto è il modo in cui tali fatti vengono invece esposti. Si pensi alla struttura di Pulp Fiction (1994): la storia sarà composta dai fatti e dalle vicende narrate, il racconto invece dalla messa in scena di tali avvenimenti per mezzo di flashback, flashforward o punti di vista differenti e contrastivi. Data questa premessa, il fulcro dell’analisi sarà pertanto la strategia enunciativa abbracciata dal videogioco in quanto arte narrativa e audiovisiva. Il “come” il videogioco parla al giocante. E’ proprio questa questione a portarci infine a fare i conti con il padre estetico dell’ottava arte: il cinema.

Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino

Il cine-gioco

E’ innegabile il merito del cinema nella nobilitazione del videogioco come forma artistica. Ma è anche vero che questa crescente abnegazione ha costituito nel tempo un vero e proprio limite espressivo. Nato come lusus, il videogioco ha “subìto” già nei suoi primi anni di vita l’impellente bisogno di nobilitarsi. A tal proposito, riporto qui di seguito le parole da me spese in un recente articolo su Encodya, una produzione nostrana che ha avuto il merito di indurmi alla riflessione sul medium di cui state leggendo il frutto:

Un’espressione artistica autonoma su un piano estetico necessita di una propria ontologica vocazione: uno specifico, per l’appunto, che la differenzi dagli altri media e la nobiliti in quanto arte. Ci pare infatti che il videogioco – come forma d’arte – sia spesse volte ancora troppo debitore della narrazione filmica. Che tenti con tutte le sue forze di avvicinarsi ad essa per esserne nobilitata di riflesso. Logica conseguenza di questa immaturità vocazionale, il punta-e-clicca diviene negli anni ’90 sinonimo di film interattivo. Un cine-gioco, più che un videogioco. Non è dunque un caso che la LucasArts, fondata dall’omonimo regista George Lucas, si chiamasse in origine LucasFilm Games. L’incapacità del videogioco di staccarsi dal seno materno ha portato alcuni creativi (Telltale Games, Dontnod Entertainment) a riformulare il genere, dando al giocatore la possibilità di plasmare la storia in fieri. Questi titoli mutano la posizione del fruitore da una condizione di passività spettatoriale ad un ben più attivo ruolo demiurgico. Anche qui, tuttavia, le scelte compiute dal giocatore portano o ad un medesimo finale, oppure ad una rosa – più o meno nutrita – di possibili conclusioni. Una libertà vigilata a tutti gli effetti. Scelte illusorie che fanno ricadere il videogioco nella morsa del creativo, ancora saldamente ancorato ad una concezione narratologica tipicamente filmica.

Sulla base di questa mia riflessione, e con il senno di poi, riterrei opportuno sottolineare come nemmeno “libertà vigilata” possa costituire da sé un elemento distintivo del videogioco. Si potrebbe ribattere che questa caratteristica sia stata prerogativa dell’ottava arte, e che sia da attribuire ad essa la paternità; tuttavia è innegabile che non sia il solo videogioco a sfruttarne le implicazioni espressive (dalla letteratura con i LibriGame – in voga già negli anni ’80 – al cinema stesso con le recenti esperienze di Black Mirror: Bandersnatch).

Detroit: Become Human (2018) della Quantic Dream, eclatante esempio di cine-gioco

Il videoludico

Che la situazione generale non sia di molto cambiata da quanto dipinto nel paragrafo precedente, non è propriamente corretto. Se è vero che l’emblematica espressione “sembra un film” è divenuta anche tra la stampa specializzata un vero e proprio criterio di giudizio, è altrettanto giusto far notare che dentro e fuori l’avanguardia (con riferimento al mercato indie) sono nate nuove forme di narrazione proprietarie del mezzo videoludico. Modalità espressive autonome, cangianti, fresche e ben lontane dal ricadere nella morsa del cinematografico.

Tutte esperienze che non a caso pongono in primo piano lo specifico dell’ottava arte, finora tanto discusso eppure mai svelato: la capacità del tutto videoludica di unire l’interattività (il dominio del giocante) allo storytelling (il dominio del creativo). Uno specifico estetico che d’ora in avanti chiameremo il “videoludico”. Tale concetto, per chiunque abbia mai approcciato un videogioco, apparirà scontato e deludente dopo queste mie interminabili premesse. Eppure non è la sola presenza dell’interattività a dotare il videogioco d’autonomia espressiva (dove sarebbero altrimenti le differenze tra Black Mirror: Bandersnatch e un qualsivoglia gioco TellTale). È al contrario il modo in cui il creativo rapporta l’istanza giocante alla narrazione (con l’accezione da noi data poc’anzi) a rendere indipendente il medium. In altre parole, non deve essere il gameplay a sottomettersi alla narrazione, né la narrazione al gameplay.

Compito dell’autore è ricercare una via mediana tra questi due poli espressivi, in cui negoziare la duplice istanza videoludica e in cui l’utente non sia preda della passività filmica. Un ruolo demiurgico, auspicato da noi per il giocante, che trova nei titoli che ci apprestiamo ad esaminare una certa qual concretezza, nonostante i distinguo del caso (non sarà MAI il giocatore a scrivere la storia, ma a dettarne i ritmi e i momenti – come vedremo – sì).

ICO (2001) del Team Ico, Fumito Ueda

Il videogioco come deep focus – Elden Ring

Nulla ci avrebbe impedito di scegliere Dark Souls come esempio di deep focus videoludico, in quanto capostipite del soulslike e maturazione diretta dell’acerba formula di Demon’s Souls. Tuttavia l’uscita sul mercato di Elden Ring ha scosso non poco il sottoscritto, portandolo a posticipare la stesura del testo che state leggendo per trovare il modo più consono di integrare un paragrafo sull’ultima fatica di Hidetaka Miyazaki. Ciò a cui state porgendo la vostra attenzione è infatti il prodotto di un’analisi mutuata dal completamento della mia prima avventura nell’Interregno; un’esperienza ludica che è stata capace di donare all’ormai collaudata formula di gioco una certa qual fresca novità, acuendo i pregi espressivi di cui From Software si fa foriera dal 2009.

Cerchiamo di sbarazzarci fin da subito dell’elefante nella stanza: Elden Ring è un Dark Souls open-world, ma è anche molto di più. È un prodotto che appare ben conscio del trascorso della compagnia e che fa dell’eredità ludica dei Souls il suo trampolino di lancio verso le frontiere della sperimentazione espressiva. Ed è qui che dobbiamo cercare il nostro specifico, il motivo per cui l’ultimo lavoro della casa nipponica appare tanto interessante e compatibile alla nostra tesi di partenza. Come si configura Elden Ring, dunque, sul piano narrativo?

Tracciando un paragone piuttosto semplicistico ma efficace tra il videogioco e il cinema, mi verrebbe da paragonare l’attitudine espressiva dei titoli FromElden Ring compreso – alla tecnica del deep focus, poc’anzi citata ma non approfondita. Con tale anglicismo ci si riferisce in Italia alla profondità di campo (una tecnica cinematografica tra le più note) portata in auge da Orson Welles nel suo Citizen Kane (1941) e resa successivamente elemento fondativo dell’estetica cinematografica modernista (dalla Nouvelle Vague a Antonioni). Essa consiste nel mettere a fuoco, nella sua interezza, l’intero campo visivo, lasciando allo spettatore la possibilità di gestire come meglio preferisce la lettura dell’inquadratura e degli input visivi. E’ dunque chiaro che la profondità di campo, come sottolineato anche da Bazin, sia nata in opposizione al decoupage del cinema classico hollywoodiano e al suo desiderio di frammentare lo spazio filmico al fine comporre un percorso obbligato per lo spettatore. Dove quest’ultimo infatti esige una passività spettatoriale, l’altro postula un utente che sia da sé in grado di costruire il senso del frame, ponendo l’attenzione sul dettaglio che di volta in volta predilige.

Uno tra i classici e accademici esempi di profondità di campo, dal Citizen Kane (1941) di Orson Welles

I titoli From Software a partire da Demon’s Souls sembrano far proprio questo precetto, privandolo tuttavia dei limiti temporali ad esso legati. Se nel cinema lo spettatore è chiamato a sottostare all’incedere cronologico, nel videogioco il tempo è soggetto alla volontà del giocante. Dato questo doveroso distinguo è tuttavia lampante il motivo che mi ha portato a porre sullo stesso piano pratiche tanto differenti: i mondi di gioco disegnati da Miyazaki appaiono all’utenza come uno sconfinato e vibrante macrocosmo da segmentare, ingrandire telescopicamente, scrutare e contemplare.

Come nelle pellicole che fanno largo uso del deep focus, la veicolazione narrativa non è appannaggio del solo verbo o di ciò che il regista/demiurgo evidenzia nella mise-en-scène, ma anche – e soprattutto – di ciò che lo spettatore può cogliere dall’analisi del quadro. L’analisi, in fin dei conti, è proprio questo (da analýo ‘scompongo’, composto da anà intensivo e da lýo ‘sciolgo’): un processo conoscitivo che parte dal particolare per giungere in ultima istanza al generale. Concetto che ben si adegua pertanto allo spirito dei souls, ove ogni dettaglio (sia esso descrizione, una statua, un’architettura o il design di una creatura) concorre alla creazione del senso estetico. Titoli che rendono l’osservazione una cospicua porzione dell’esperienza ludica, giungendo all’auspicata convergenza di interattività e storytelling. Come chiamare questa prerogativa delle opere miyazakiane se non “videoludico“, caratteristica da noi definita come specifico dell’ottava arte. La narrazione sottrattiva e silenziosa dei soulslike ben si confà all’identificazione di un’autonomia linguistica, e tende all’esasperazione se come oggetto d’analisi non prendiamo il genere in toto ma l’ultima tappa di questa maturazione ludica: Elden Ring.

Il neonato pupillo della casa nipponica porta alle estreme conseguenze la libertà narrativa dei predecessori, proponendo all’utenza un mondo vasto e fin da subito interconnesso. Se in Dark Souls era sì possibile scegliere da dove iniziare la propria avventura e – di conseguenza – l’analisi del lore di gioco (il world building, curato in questo titolo da George R.R. Martin), era altrettanto vero che la libertà esplorativa era relegata ad un sistema di open map e una rosa di percorsi possibili. In Elden Ring non vi sono binari prestabiliti.

La configurazione open world dell’Interregno consente il più ardito recupero di informazioni, ponendo all’insegna dell’unicità ogni percorso ludico. Non esiste esperienza che su un piano narrativo sia assimilabile all’altra. La composizione del puzzle è proprietaria di ciascun individuo, e di lui soltanto.

Il videogioco come limite – Bioshock Infinite

Bioshock Infinite esce nei mercati mondiali nel 2013, probabilmente il picco produttivo e artistico dei già citati cine-giochi. Di quegli anni sono infatti diversi titoli Telltale (The Walking Dead: Season One, The Wolf Among Us), Beyond: Two Souls (2013) di Quantic Dream/Cage e Mass Effect 3 (2012) della BioWare; videogiochi che fanno della demiurgia narrativa – seppur in modalità diverse – il loro cavallo di battaglia. Il videogioco, per questi creativi, è la possibilità di donare al giocatore il pieno controllo dello sviluppo di trama, basando l’esito dell’avventura sulle scelte da lui compiute lungo il percorso. Abbiamo già a lungo dibattuto su come questa modalità espressiva sia in fin dei conti menzognera, pertanto non mi prolungherò oltre: basti tenere a mente l’illusorietà di questa emancipazione del giocante. Dando per scontato che il videoludico non si possa né si debba ricercare nella libertà vigilata, da cui fa ancora capolino il cinema (uscito dalla porta e rientrato dalla finestra), ecco che Levine metaforizza questo immobilismo estetico in un titolo (ri)vestito di mediocritas: Bioshock Infinite non è un titolo rivoluzionario, non svecchia alcuna stantia formula di gioco né si distingue per freschezza, nonostante una scrittura a dir poco eccezionale ed un comparto artistico ben più che pregevole. Cosa rende allora il prodotto 2K tanto interessante ai nostri occhi?

Nel corso della sua avventura, Booker DeWitt (il personaggio da noi interpretato) è chiamato di trama a compiere talune scelte, proposte al giocatore nella classica forma binaria (A o B). Ciò a cui l’esperienza videoludica ci aveva in quegli anni abituato era soppesare con cautela le opzioni, valutandone i possibili effetti a lungo termine e le implicazioni a livello narrativo. Di fronte a quesiti tanto apparentemente superficiali come la scelta di una spilla piuttosto che di un’altra, l’attenzione era tuttavia massima: non potevamo in alcun modo prevederne gli esiti. Il sistema che avevamo pensato di conoscere tanto bene ci ritorceva contro.

Inaspettata la scoperta giunti, ai titoli di coda, che in verità nessuna delle nostre azioni aveva modificato lo svolgersi orizzontale degli eventi, se non in minima parte (“costanti e variabili” è in questo senso la chiave di volta). Nulla era cambiato, perché inevitabilmente nulla cambia. La vena fatalista della scrittura di Levine non aveva influenzato la sola storia di Booker, ma si era metaforizzata nel gameplay. Le nostre scelte erano l’incarnazione di un immobilismo estetico che aveva ammorbato, e continua ad ammorbare, il mercato. Il libero arbitrio non esiste. E se anche esistesse, non riguarderebbe l’uomo, figuriamoci i suoi prodotti. La non-scelta di Bioshock Infinite diviene così perfetta metafora di due mondi: la vita e l’arte. Di fronte a questa condizione esistenziale ed estetica non resta altro che la rassegnazione ai fatti, e la constatazione della propria prigionia. Giochi come Heavy Rain ci promettono un Eden di carta, un sogno inconsistente che cerca in ogni modo di camuffare i propri limiti. Bioshock Infinite invece tali limiti li esibisce senza pudore, svegliando l’utenza dal “sonno dogmatico” del mercato contemporaneo. L’uomo, come ente e come giocante, non è libero, e Levine lo dimostra utilizzando non un filmato, non una linea di dialogo, ma la pura interazione, il gameplay. Il videoludico è qui, davanti ai nostri occhi. Non serve cercare oltre.

“C’è sempre un faro. C’è sempre un uomo. C’è sempre una città.”

Il videogioco come metatesto – Undertale

Il nostro terzo ed ultimo oggetto d’analisi è probabilmente il titolo che più di ogni altro ha rivoluzionato il medium. Non è dunque un caso se qualche paragrafo fa ho elogiato le possibilità espressive di un mercato indipendente. Undertale ne conferma le premesse: l’opera di Toby Fox è quanto di più libero, fresco, innovativo e interessante ci potessimo aspettare nel lontano 2015. Presentandosi al consumatore come un RPG dalla storia classica e dalla fortissima vena pop (con richiami continui alla cultura del web), Undertale si è dimostrato capace di mescolare il problematico sistema delle “non-scelte” cine-ludiche ad un’attitudine metatestuale che libera ben presto il giocatore dai limiti di scrittura. Cerchiamo di analizzare al meglio la situazione.

Alcuni dei personaggi più noti dell’avventura di Fox.

In Undertale saremo chiamati a vestire i panni di un ragazzino (Frisk) che, ritrovatosi nel Sottosuolo, alle porte del regno dei mostri, dovrà farsi strada verso la libertà. Durante il suo tortuoso percorso farà la conoscenza di numerosi abitanti del mondo sotterraneo, ognuno con una propria sensibilità e una backstory ben delineata. Sarà tuttavia prerogativa del giocatore scegliere come comportarsi nei riguardi di questi mesti abitanti: se rimanere neutrali di fronte alle loro azioni, se condannarli a morte certa per il puro gusto di vederli soffrire, o se risparmiarli e socializzare con loro. La sola presenza di tre macro-soluzioni narrative potrebbe indurre a ritenere Undertale un titolo del tutto simile alla schiera di giochi finora criticati; eppure già dalle prime battute ci può accorgere di due elementi – qui di seguito elencati – che rilevano il gioco di Fox dalla fitta coltre di mediocrità videoludica:

  • Differentemente dai cine-giochi in cui sono presentati in grande spolvero ed in maniera didascalica i momenti in cui prendere una decisione (binaria o ternaria che sia) di grande rilevanza, Undertale si presenta come un continuo ed incessante banco di prova. Qualsiasi nostra azione ha un peso nei confronti del mondo di gioco. Che sia sferrare un colpo, risparmiare un avversario incontrato lungo il percorso o compiere la benché minima mossa, tutto intorno a noi risponde delle nostre scelte. Va da sé che le diramazioni possibili di una stessa prima esperienza risulteranno decisamente superiori a qualsivoglia cine-gioco, pur non raggiungendo – per ovvi motivi e limiti – la completa libertà decisionale.

Se anche Undertale, nonostante la maggior libertà proposta, ricade vittima della limitatezza ludica, cosa ci porta ad inserirlo in questo scritto? Cosa lo distingue veramente dal cine-gioco?

  • Ogni scelta da noi effettuata – e ci pare questa la vera innovazione del titolo di Fox – non ha rilevanza sul solo mondo virtuale, ma anche sul giocatore come individuo. Non è di certo una novità che i videogiochi siano di natura portati, molto più del cinema e della letteratura, ad abbracciare la metatestualità, come dimostrato a più riprese da Kojima in Metal Gear Solid e Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (giusto per fare due nomi); tuttavia le implicazioni decisionali di Undertale sembrano sfiorare l’etica senza mai cadere nel moralismo. Se compiamo una buona azione, ad essere gratificato non sarà il solo nostro PG, ma lo saremo anche noi in qualità di giocanti. Allo stesso modo, non sarà mostrata pietà alcuna nei nostri riguardi se le azioni da noi intraprese porteranno ad esiti nefasti. Ne conseguono dialoghi che passano dall’interpellazione di matrice filmica alla più pura metadiscorsività, dove con la prima intendiamo un caso di enunciazione enunciata (la messa a nudo del processo comunicativo) e con la seconda l’annullamento di qualsivoglia finzionalità: il protagonista del titolo non appare più come una figura mediatrice dell’istanza giocante. Esso scompare del tutto nel dialogo tra l’utente/enunciatario e l’autore/enunciatore. In parole povere l’artista (Toby Fox) non comunica più a noi tramite Frisk, ma ci redarguisce direttamente e senza filtri.

E’ dunque logico pensare che le implicazioni di questa peculiarità enunciativa siano di sicuro interesse ai fini di questa nostra ricerca. L’interattività data in mano al giocatore non è capace della sola modificazione di un mondo virtuale a noi alieno, è in grado di cambiarci anche come persone, rivoluzionando in noi il modo di guardare al medium in primis. Undertale, ed in questo mi appare molto vicino a Bioshock Infinite, si dimostra capace di realizzare un acuto “ludo-saggio” sul mezzo, presentandosi al contempo come un sfida alla moralità dell’enunciatario. Un titolo in cui il videoludico si dimostra ancora una volta cangiante e differente, eppure sempre uguale nelle intenzioni. Il videogioco non è cinema, e Toby Fox ce l’ha dimostrato.

Conclusioni

Nella speranza di essere risultati chiari nelle intenzioni e nelle argomentazioni, siamo infine giunti alla conclusione di questa nostro viaggio alla ricerca di uno specifico, di un’autonomia linguistica del videogioco. Di quell’elemento in grado di legittimare la nostra passione come arte indipendente. Attraverso tre esempi che configurano in maniere differenti eppure simili il videoludico (questo il nome da noi dato allo specifico), abbiamo dimostrato come il videogioco sia già riuscito in alcuni casi a dimostrarsi avulso dalle arti dei padri; e di come, tuttavia, ci sia ancora molta strada da fare per scacciare lo spettro della cinematografia.

Il videogioco è ancora un medium giovane, capace sì di uno sviluppo rapido e incessante, eppure ancora distante dalla piena maturazione estetica (nonostante i risultati a dir poco strabilianti raggiunti – come abbiamo dimostrato nel corso dello scritto – in una decina di anni). Solo il tempo ci saprà dire se il medium resisterà alle fauci cannibaliche dell’industria o se riuscirà ad emanciparsi maggiormente, grazie anche al mercato indipendente. Le nostre aspettative, dati i precedenti, rimangono delle più rosee, nella speranza di poter dire un giorno che l’ottava arte non è un’arte ancillare.

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