Dalla pubblicazione del mio ultimo editoriale – di cui questo scritto vuole essere un’ideale continuazione – ho avuto modo di riflettere su una questione che, pur introdotta, non credo di aver ben approfondito. Rispolverando avidamente i primi due capitoli di Monkey Island in attesa della nuova opera di Ron Gilbert, mi sono accorto di quanto alcune affermazioni da me fatte circa l’apporto delle avventure grafiche nell’evoluzione del videoludico fossero, se non inesatte, comunque lacunose. Il mio scopo è quindi proprio quello di colmare i vuoti lasciati dal mio precedente scritto, analizzando un genere che in modo assolutamente sciocco ho relegato al solo passato del medium. Mi sia dunque dato modo, in maniera preventiva, di porre alcuni paletti teorici andando a discutere che cosa siano le avventure grafiche e, più specificatamente, i punta-e-clicca.
Cronistoria di un genere
Quando usiamo – spesse volte impropriamente – il termine “avventura grafica“, facciamo implicito riferimento ad un vasto ed eterogeneo universo semantico di cui il punta-e-clicca rappresenta una singola, e non originaria, declinazione. Il termine anglofono “adventure game” è in questo ancor più generico ed inclusivo, vedendo nella “graphic adventure“, come in un gioco di matrioske, uno specifico momento nello sviluppo del genere, che precede, segue ed ingloba anche le avventure punta-e-clicca. In altri termini, il punta-e-clicca è contenuto nell’insieme delle avventure grafiche, e le avventure grafiche sono a loro volta contenute nel macro-insieme degli adventure games, ovverosia quei titoli che, da definizione, sono caratterizzati da un maggiore focus sulla narrazione, esplorazione, risoluzione di rompicapi e sull’interazione con i personaggi non giocanti (PNG/NPC).
Posta dunque la versatilità del termine “avventura grafica“, ed il suo limite teorico (non possiede, come si è visto, l’universalità – e anche la vaghezza – dell’adventure game); e posta la particolarità storica del punta-e-clicca, sottogenere della stessa e NON matrice ludica della graphic adventure; è bene ora, prima di addentrarsi nelle implicazioni estetiche contemporanee, gettare le basi storiche per lo sviluppo del discorso.
Avventure testuali
L’adventure game nasce con le prime forme di avventura testuale o fiction interattiva. Si tratta di software ludici che, come Zork (1977), presentano al giocatore, in forma scritta, un contraltare virtuale alle esperienze offerte in quegli anni dai libri-game. La componente grafica si limita peraltro alla testualità, ed il videoludico in essi è del tutto assente, se con quest’ultimo intendiamo il discrimine tra il videogioco e gli altri linguaggi. Le avventure testuali non presentano infatti alcuna differenza di sorta con quanto già offerto dalla letteratura, e non possono considerarsi esempio di maturità mediale.

Avventura grafica
Il passaggio successivo è l’integrazione della componente visiva. Entra qui in gioco la graphic adventure/avventura grafica, che, alla testualità della fiction interattiva, affianca l’elemento grafico. Seminale in tal senso è l’apporto di Mystery House (1980) della On-Line Systems (poi Sierra On-Line), tra i primi esempi – tra l’altro – di horror videoludico. Nell’avventura per Apple II, il giocatore è chiamato a digitare i comandi d’azione per progredire nell’esplorazione di un ambiente virtuale in 8-bit. L’accompagnamento visivo in questa produzione, nonostante rappresenti un passo in avanti per l’industria e lo sviluppo del medium, non è tuttavia sufficiente a rendere l’esperienza autonoma sul piano espressivo. Per giungere a tali esiti bisognerà essere pazienti ed attendere il 1987, anno d’uscita di Maniac Mansion.

Avventura grafica: punta-e-clicca
E’ solo con il punta-e-clicca che l’avventura grafica, e l’adventure game di conseguenza, ottiene l’agognata indipendenza estetica. I primi tre King’s Quest della Sierra On-Line (rispettivamente dell’83, ’85 e ’86), avevano già di per sé rappresentato un’insperata evoluzione rispetto a quanto realizzato con Mistery House. Eppure l’eredità delle avventure testuali, rintracciabile tra le altre cose nell’assenza di interazione dialogica tra i personaggi (qui sostituita da brevi testi impersonali), relega lo straordinario esperimento della Sierra ad una concezione ludica ancora acerba e debitrice, se non del cinema, ancora una volta della letteratura.
E’ proprio da King’s Quest che prendono ispirazione Ron Gilbert e Gary Winnick per la “rivoluzione Maniac Mansion“. Gilbert stesso, in un’intervista sul canale “Talks at Google“, ha affermato di essere stato rapito dall’avventura targata Sierra quando, durante le vacanze di Natale, ci vide giocare un suo cuginetto. Di lì il desiderio di superare quella formula di gioco per proporre un prodotto innovativo. A tale scopo rispondeva anche il novello SCUMM, acronimo di Script Creation Utility for Maniac Mansion (Utilità di creazione script per Maniac Mansion), il motore grafico che da lì in avanti avrebbe dato i natali a tutte le future avventure LucasArts, fino – per lo meno – all’arrivo di Grim Fandango (1998) di Tim Schafer.

Breve excursus su Maniac Mansion
Prenderò qui d’esempio Maniac Mansion per parlare della produzione LucasArts nella sua interezza, con gli eventuali distinguo del caso. Cosa rende dunque Maniac Mansion tanto interessante ancora oggi? Come si è già detto, uno scarto fondamentale tra il titolo Lucasfilm Games e King’s Quest, è il comparto ludico. Alla testualità morbosa della produzione Sierra, Maniac Mansion contrappone un’esperienza priva di appesantimenti letterari, votata al perfetto equilibrio di gameplay e storia, qui veicolata da brevi interventi dialogici (scenette spesse volte comiche). Per interagire con il mondo di gioco non è più richiesto digitare il giusto verbo, ma basta far ricorso all’interfaccia di gioco in cui, ai centinaia di termini e sinonimi annessi letti dalle avventure testuali, sono preferiti quindici semplici comandi d’azione, snelliti da Monkey Island in poi in “dare”, “prendere”, “usare”, “aprire”, “esaminare”, “premere”, “chiudere”, “parlare” e “tirare”.
A ciò si aggiunge la non sottovalutabile secondarietà di alcune scelte di gioco. Non tutto ciò che faremo in-game sarà propedeutico al raggiungimento dei titoli di coda. Spesso e volentieri infatti, alcune nostre azioni potranno anche condurci ad un vicolo cieco, impedendoci di completare l’avventura o portarci ad esiti nefasti, come la morte di uno o più dei nostri protagonisti (selezionabili e interscambiabili in tempo reale). Quando ciò non accade, tuttavia, quanto si rivela facoltativo arricchisce di molto la tangibilità dell’ambiente virtuale. Il sentir vivo ogni angolo della magione, e poter ottenere dall’interazione con essa risultati sempre differenti ad ogni partita, rendono Maniac Mansion ancora oggi un titolo consapevole delle proprie capacità mediali. Il game-over è stato certamente messo in disparte nelle successive avventure punta-e-clicca, per motivi riguardanti la sola fruibilità, eppure quella vitalità virtuale permaneva, costante e inamovibile, sintomo maturo della presenza del videoludico.

Cinema e punta-e-clicca
Come risolvere ora il rapporto tra i punta-e-clicca e il cinema, ritenuto tanto problematico nel precedente articolo? Quanto detto finora circa Maniac Mansion basterebbe a risolvere la questione, avendo dimostrato come anche il punta-e-clicca abbia sviluppato a pieno il videoludico. E’ bene tuttavia affrontare la questione non solo da un punto di vista ludico, ma anche narrativo, tirando in ballo i rapporti intessuti con il cinema. Come più volte espresso nella mia ricerca sul videoludico, il punta-e-clicca si sviluppa negli anni 80/90 come l’inevitabile risposta a quel bisogno di nobilitazione che facesse pensare al videogioco come arte “matura“. Il passaggio più rapido, oltre che obbligato, era quello di salire sulle spalle dei giganti, facendo il verso alle narrazioni filmiche, per dimostrarsi meritevoli di riguardo. Quella iniziale dipendenza, a una seconda analisi, parrebbe tuttavia più problematica di quanto non si pensasse. Sembra infatti che la linearità filmica, cui accompagnare una linearità ludica, sia più comune al videogioco contemporaneo che al punta-e-clicca, che, pur razionalizzando la lezione cinematografica, risulta difficile assimilare, almeno nelle sue prime iterazioni, al cinema. In un suo recente video su Thimbleweed Park, il content creator Henry Kathman ha paragonato l’esperienza dei punta-e-clicca LucasArts all’opera degli autori del Teatro dell’Assurdo. Per il critico e giornalista Martin Esslin il lavoro di questi creativi consiste nel declinare artisticamente la filosofia dell’assurdismo. Quest’ultima getta le sue radici nell’esistenzialismo kierkegaardiano, e nel novecento letterario prende il via da autori quali Jean-Paul Sartre e Albert Camus.

E’ proprio Camus a donarci la più esaustiva e potente metafora di questo articolato pensiero ne Il mito di Sisifo (1942). Nel saggio viene ripresa per l’appunto la storia dell’astuto fondatore di Corinto che, ingannata per ben due volte la morte, è reso prigioniero dagli dei e costretto a issare un pesante macigno lungo il pendio di un monte, salvo vederlo rotolar giù una volta giunto in cima. Camus, paragonando la condizione di Sisifo a quella dell’uomo moderno, nega l’esistenza di un qualsivoglia significato superiore, riconoscendo come assurda l’esistenza stessa.
La soluzione, per l’autore francese, è dunque solo una: accettare l’assurdità del mondo e il nostro non-ruolo in esso, e fare ciò come Sisifo: con il sorriso in faccia e la consapevolezza di questa vacuità semantica. Così scrive Camus nel suo saggio:
“Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.“

Le avventure LucasArts sembrano rispondere a questa comune vocazione filosofica. Usiamo The Secret of Monkey Island (1990) come esempio. La trama del gioco di Ron Gilbert è assai semplice. Il giovane ed intraprendente Guybrush Threepwood desidera ardentemente diventare un pirata. L’occasione ghiotta gli si presenta quando Elaine, la governatrice di Melee Island, viene rapita dal pirata fantasma LeChuck e portata prigioniera a Monkey Island, dove – nolente – verrà fatta sua sposa. Guybrush, innamorato della ragazza, decide di partire alla volta dell’isola maledetta, finendo tuttavia per complicare la già delicata situazione. Sopravvissuto ad ogni tipo di avversità, su terra e su mare, e giunto infine sul luogo, scopre infatti che l’amata non solo non è tenuta prigioniera sull’isola, ma si trova con LeChuck su Melee Island, pronta per il matrimonio.
Il suo viaggio è stato vano: non è riuscito a svelare il segreto celato da Monkey Island ed è pure costretto a tornare al punto di partenza con la coda tra le gambe. Recatosi precipitosamente in chiesa, una nuova avvilente verità è pronta ad attenderlo: il matrimonio è un piano saggiamente pensato dalla stessa Elaine per eliminare definitivamente la minaccia di LeChuck, ed è proprio Guybrush a mandarglielo in fumo, costretto ora a ristabilire l’ordine sfidando lui stesso lo spettrale bucaniere. E’ dunque chiaro, alla fine dell’avventura, che se Guybrush non si fosse intromesso Elaine avrebbe sconfitto LeChuck da sola (e in tempi ben più ristretti). L’intero suo viaggio risulta – come già detto – assolutamente vano. Elaine non era a Monkey Island e nessuna verità è stata lì svelata. Ad aggiungersi a ciò, il fatto che Guybrush, nonostante i suoi iniziali intenti, non sia riuscito, nemmeno alla fine, a diventare un vero pirata, potendosi tutt’al più vantare di aver sconfitto il temibile LeChuck. Anche se, come mostrato nelle battute iniziali di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge (1991), il tutto risulta inutile. Guybrush non è credibile e nessuno è disposto a bersi la sua storia.

Altro esempio del tutto simile nella produzione LucasArts ci è fornito da Day of the Tentacle (1993) di Dave Grossman e Tim Schafer, séguito diretto di Maniac Mansion.
Nel videogioco, Bernard Bernoulli e i suoi amici Hoagie e Laverne, sono richiamati alla magione da un disperato grido d’aiuto di Green Tentacle, uno degli esperimenti del Dottor Fred. Pare infatti che suo “fratello”, Purple Tentacle abbia deciso di conquistare il mondo. Giunto alla villa, Bernand – non sapendo tuttavia che Fred aveva già sedato la “rivolta” legando i colpevoli (e dimenticandosi della natura malvagia di uno dei tentacoli) – decide ingenuamente di liberare le due creature, dando concretezza ai piani di conquista di Purple. Ciò che ne consegue è una rocambolesca avventura per impedire, usando una macchina del tempo, che si verifichi l’inevitabile: un distopico futuro in cui la razza umana è schiava dei tentacoli. Anche in questo caso, se i protagonisti non fossero mai intervenuti, nulla sarebbe mai successo o cambiato. Il loro apporto, giunti al finale, è assolutamente nullo.

Presentati questi due specifici casi, non è difficile rintracciare come in essi la narrazione, per quanto lineare, non porti avanti nulla. La trama non si sviluppa, i personaggi rimangono macchiettistici e a tratti tragicomici nelle loro disgrazie. Le sorti del mondo diegetico non dipendono in alcun modo dalla loro azione. Ciò che fanno è vano, privo di senso. Guybrush Threepwood, o Bernard, da novelli Sisifo, mostrano come il loro agire sia assurdo. Come Sisifo, inoltre, accettano questa loro condizione, abbracciano il caos e sorridono davanti all’insensatezza del Creato.
Non si fanno troppe domande nel raccogliere un pollo con una carrucola, o nel mettere un criceto in ghiacciaia. Il mondo è assurdo e si muovono peraltro di conseguenza. E’ qui che si rintraccia il debito che le avventure LucasArts hanno con l’assurdismo, e dunque la distanza che si frappone tra esse ed il cinema. Tutto risiede nell’assoluta vacuità di una narrazione che non ha traguardi, non ha scopo, ma non per questo non ha messaggi. L’insensatezza del mondo, che sia il nostro o quello diegetico, non presuppone infatti la mancanza di un nostro personale significato, di qualcosa che ci sproni ad andare avanti. Sia esso il desiderio di diventare un pirata (Guybrush), di sposare l’amore della propria vita (LeChuck) o sconfiggere il proprio aguzzino (Elaine).

Si è infine dimostrato come il punta-e-clicca, lungi dall’essere (come in verità pensavo) uno stadio transitorio dell’evoluzione estetica videoludica, è a tutti gli effetti un’espressione matura ed autosufficiente dello specifico. La nobilitazione del videogioco non è un tentativo parzialmente riuscito, ma un successo incriticabile. Ciò che appare problematico nell’analisi del genere non è quindi la sua genesi e con essa le sue prime manifestazioni, ma la stagnazione che ha prodotto nel post-duemila e le devianze che le attuali avventure grafiche si ostinano a definire eredità.
La storia dell’avventura grafica ha infatti subito nell’ultima ventina d’anni una biforcazione, ricercando da un lato la fedeltà al modello ludico originale, e dall’altra l’afflato filmico che percorre la produzione contemporanea. Inutile qui puntualizzare come il primo approccio, che qui definirò come “modello LucasArts“, sia stato relegato alla nicchia dal suo ideologico contraltare, il “modello TellTale“.

Il modello TellTale
Il modello TellTale, proponendo un’esperienza di gioco lineare, nella falsa promessa di un ruolo demiurgico, si è imposto sul mercato con formule fortemente debitrici del modello audiovisivo. Basti pensare alla suddivisione di The Walking Dead (TellTale Games, 2012) in episodi e stagioni, che denuncia apertamente il debito che il gioco ha con la serialità televisiva. Dov’è in tutto questo il videogioco? O per meglio dire, dov’è il videoludico? La risposta è semplice. Di esso non vi è traccia in queste produzioni. La libertà del giocatore, lungi dall’essere sovrapponibile alla falsa promessa di plasmare lo sviluppo narrativo, è limitata se non nulla. “Non è la sola presenza dell’interattività a dotare il videogioco d’autonomia espressiva. […] È al contrario il modo in cui il creativo rapporta l’istanza giocante alla narrazione […] a rendere indipendente il medium. In altre parole, non deve essere il gameplay a sottomettersi alla narrazione, né la narrazione al gameplay.” Poco importa se ci è dato modo di compiere determinate scelte se gli esiti alla fine, se non ridotti ad una malnutrita rosa, sono i medesimi per ogni fruitore. Non è questa la libertà promessaci dal medium. Esempio lampante di questa devianza filmica, che trova nel cine-gioco la sua più degenere incarnazione, è Until Dawn, titolo che ha portato nel 2015 alla ribalta la Supermassive Games. Il labirintico sistema di scelte dell’avventura grafica è spesse volte evocato in circostanze assimilabili a quick time event. In lassi di tempo del tutto limitati si è costretti a prendere decisioni drastiche senza ragionamento alcuno. Il tempo ci impone l’istintualità.
Il problema alla base di questa struttura ludica è tuttavia lampante. Nel caso in cui la nostra indecisione porti allo scadere del tempo, non avremo alcuna penalizzazione. Il gioco ne terrà semplicemente conto, considerando il nostro immobilismo come una terza scelta, una terza via percorribile. Un medium in cui l’apporto del giocatore è il discrimine con gli altri linguaggi narrativi non può concedere passività all’utenza. Quale sarebbe altrimenti la differenza tra la visione di Game of Thrones e la sua omonima controparte videoludica? Pur proponendo un’alternativa al lascito delle produzioni LucasArts, il modello TellTale si rivela fallace, incapace di sviluppare a pieno le proprie ontologiche propensioni mediali. L’eredità del genere è eclissata dall’aspirazione cinematografica, e l’istanza dell’enunciatore (l’autore) finisce per cannibalizzare il già misero ruolo dell’enunciatario (il giocante). Del videludico rimane solo un vago ricordo.

Il modello LucasArts
Di valore opposto al modello TellTale vi è quella nutrita schiera di titoli che si rifugiano nel conservatorismo. E’ questo il caso delle produzioni che, sulla scia del successo della LucasArts, hanno continuato per decenni a riproporre punta-e-clicca dal sapore retrò. Esperienze che nulla apportano al genere e che hanno il solo scopo di ritagliarsi una ridotta fetta di mercato facendo leva sulla nostalgia. A questa categoria appartengono molti titoli a noi giunti grazie alla spagnola FX Interactive: per citarne qualcuno, basti pensare ai giochi della Pendulo Studios (dalla serie di Hollywood Monsters a quella di Runaway), o a La città perduta di Zenzura della Cranberry Productions o ancora alla serie di Deponia della Daedalic Entertainment. A questi si aggiungono produzioni e distribuzioni altre, dai nostrani Encodya (Chaosmonger Studio, 2021) e Willy Morgan and the Curse of Bone Town (imaginarylab, 2022), fino al Gray Matter (2011) di Jane Jensen, già autrice della serie di Gabriel Knight. Sia chiaro, la mia posizione in merito a queste opere è quanto mai neutrale. La critica che qui si sta muovendo non concerne l’oggettiva qualità di queste produzioni, ma la sentita mancanza di un’effettiva novità ludica. Non solo questi prodotti, pubblicati anche in tempi recenti, riprendono infatti topoi codificati decine di anni fa, ma spesse volte li presentano pigramente, con riduzioni ai minimi termini e continue strizzate d’occhio ad un panorama ludico non più così in auge.
Il passatismo di queste operazioni è il vero limite di questi publisher e developer, rendendo il confronto con la controparte “cinefila” una battaglia persa in partenza.
Un’altra criticità sorge nel rapportare il modello LucasArts con l’eredità di cui si fa vanto. Prendiamo un titolo come Willy Morgan and the Curse of Bone Town (2022), non di certo tra i più conosciuti, ma funzionale al nostro paragone per intenti e data di pubblicazione. Il gioco di imaginarylab palesa fin dalle sue premesse il debito con l’opera gilbertiana (in particolare Monkey Island). Nello sciorinare l’amore per il brand, l’opera nostrana riprende pedissequamente le meccaniche di gioco di un generico punta-e-clicca, senza proporre alcuna variazione sul tema e riducendo anzi al minimo le interazioni possibili.

Prendiamo nuovamente The Secret of Monkey Island. Nel capolavoro di Gilbert si è chiamati – proprio come in Willy Morgan – a muoversi in uno scenario 2.5D. Le nostre azioni non sono tuttavia limitate, come già spiegato in precedenza, al trinomio raccogli/usa/parla (come presente in decine se non centinaia di avventure grafiche a venire), ma la rosa di possibilità che si schiude davanti a noi ha dell’incredibile, e non solo per l’epoca. Un sistema ludico tanto stratificato, andato a perdersi in favore di una maggiore accessibilità per l’utenza, permetteva interazioni uniche e sorprendenti con l’ambiente di gioco ed i suoi abitanti virtuali. Usare ad esempio il comando “pick up” (con la doppia valenza in italiano di “raccogliere” e “rimorchiare“) sull’ignara Kate Capsize in Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge, risultava in più d’una linea di dialogo secondaria, scritta appositamente per l’evenienza. Piccole ma numerosissime chicche che, unitamente ad una generale difficoltà di ovvia natura intellettuale, rendono a tutt’oggi il giocante attivo partecipatore dell’esperienza ludica. E’ così che il punta-e-clicca si redime infine dal ruolo marginale a lui destinato nell’ultimo scritto, trovando nelle sue prime manifestazioni artistiche degna espressione del videoludico. Una maturità mediale che pare tuttavia svanita con l’affermarsi dei modelli sopra analizzati, più vicini ad un’involuzione che ad un vero e proprio progresso. Possibile quindi che, a distanza di più di trent’anni da The Secret of Monkey Island, non siano stati fatti passi in avanti tra chi si professa ortodosso sostenitore di quella scuola?

I modelli alternativi
Ai fini di questa analisi mi sia concesso aggiungere una terza categoria, più simile ad un termine ombrello che ad un vero e codificato modello ludico. Sto difatti parlando di quei titoli che, per un motivo o per un altro, non rientrano a pieno né nel modello LucasArts (sinonimo di conservatorismo acritico), né nel modello TellTale (alla base della logica del cine-gioco). Essendo questo modello “alternativo” un amalgama eterogeneo di titoli fra di loro diversissimi, mi limiterò ad analizzare in tutto due prodotti esemplificativi di questa “terza via“, uno per modello. Va da sé che i videogiochi presi in esame non costituiscono un genere o sottogenere codificato, ma si dimostrano esperienze isolate che nella loro difformità recuperano il videludico con esiti imprevisti. Siano dunque presi d’esempio per questa disamina Sherlock Holmes: Crimes and Punishments (2014) della FrogWares e Thimbleweed Park (2015) di Ron Gilbert.
Modelli alternativi: Sherlock Holmes – Crimes and Punishments
Pur ascrivibile al macrosistema degli adventure games, Sherlock Holmes – Crimes and Punishments si presenta ben più complesso da incasellare. Le ispirazioni provengono di certo dal mondo delle avventure grafiche, e i primi lavori della FrogWares sul celebre detective inglese ne sono un esempio; tuttavia Crimes and Punishments è un titolo ben più stratificato ed originale di quanto non si possa in verità pensare. Il suo apporto al genere è da considerarsi inoltre strettamente legato al modello TellTale di cui sopra. La storia è raccontata con piglio cinematografico, sono frequenti i quick time event e il comparto ludico tutto – dalla visuale in terza persona, all’HUD fino al menù di gioco – fa pensare ad un prodotto ben più vicino al cine-gioco che ai più felici esiti visti tra i punta-e-clicca. Se il videoludico è – e lo ripetiamo – la linea mediana che si frappone tra l’apporto del giocatore e il controllo del creativo, Crimes and Punishments parrebbe ad una prima occhiata pienamente aderente al modello cui ci siamo riferiti, preferendo la passività all’interazione del giocante. Ma è proprio qui che il contributo intellettuale richiesto dal punta-e-clicca fa la sua comparsa, rendendo valevole e ponderata l’esperienza FrogWares. Nel corso dell’avventura, nei panni di Holmes, saremo infatti chiamati a risolvere sei differenti casi, dando il nostro personale apporto all’esito degli stessi. Non si tratta di raccogliere indizi a sufficienza per incastrare il colpevole, ma di decidere attivamente chi incolpare sulla base di quanto analizzato. Sta a noi giocatori studiare l’ambiente di gioco, le prove raccolte, i libri in possesso del detective nel suo appartamento in 221b di Baker Street ed interrogare i sospetti. Dobbiamo pensare attivamente alla risoluzione del caso, pena il mandare in carcere un povero innocente. Il videoludico si configura peraltro come attivo contributo razionale da parte del giocatore, suscettibile – differentemente da quanto accade nei punta-e-clicca – anche di errori. E’ in questo che il prodotto FrogWares propone una valida alternativa al modello TellTale, mostrando come l’interattività, lungi dall’essere solo quantitativa e materiale, può essere anche qualitativa ed intellettuale.

Modelli alternativi: Thimbleweed Park
Non c’è modo migliore di proporre una radicale alternativa al modello LucasArts, se non facendo leva sul fattore nostalgico stesso, proponendo un titolo che si inserirebbe perfettamente nel novero delle avventure punta-e-clicca di un tempo. Ron Gilbert, in barba agli emuli che negli anni si sono succeduti, l’ha ben capito, e dopo una lunga campagna Kickstarter ha portato alla luce un videogioco che dalle premesse sembrava recuperare a pieno le atmosfere dei classici del genere. Dietro il progetto, stando alle dichiarazioni dell’autore, vi era il bisogno di scoprire quale fosse quel quid che rende tanto affascinanti le avventure grafiche di un tempo, e che – mancando nelle produzioni più recenti – rende il mercato attuale poco stimolante. Thimbleweed Park è dunque un esperimento, una dispendiosa ricerca per svelare il segreto ontologico di un genere tanto amato. Da tale desiderio deriva pertanto il ricorso ad una tanto peculiare estetica, il recupero dell’interfaccia SCUMM e più in generale il sistema di movimento e progressione in toto. Come per Sherlock Holmes – Crimes and Punishments, anche qui non sembrerebbe esserci spazio per la novità, né tanto meno per una piena espressione del videoludico, messa in disparte dal temuto fattore nostalgia; eppure il prodotto di Gilbert stupisce per freschezza ed intuizione, dimostrandosi uno dei più compiuti ed interessanti prodotti mediali degli ultimi decenni. Essendo molta la carne al fuoco, è bene che divida la mia analisi di Thimbleweed Park in due parti. Nella prima si andrà a analizzare il videogioco da un punto di vista ludico, mettendo in luce quanto di nuovo sia stato apportato alla formula punta-e-clicca. Nella seconda parte, invece, recuperando l’analisi fatta sulla natura narrativa del punta-e-clicca, andremo ad identificare l’objet petit a del suo autore.

Thimbleweed Park e il modello LucasArts
Cosa distingue davvero Thimbleweed Park dal resto delle avventure LucasArts? Mettendo da parte il comparto estetico (che fa sfoggio di decine di strati di parallasse, inimmaginabili per l’epoca), l’ultima opera di Ron Gilbert recupera la formula punta-e-clicca inserendola in un contesto ludico dal più ampio respiro. Non stiamo parlando di una magione virtuale interamente esplorabile, ma di un mondo vibrante che si schiude davanti agli occhi del giocatore. Se già Maniac Mansion aveva vivificato il suo microcosmo con centinaia di differenti interazioni, Thimbleweed Park presenta al giocante un’intera contea che risponde ai dettami di una vera e propria open map. L’ordine di risoluzione degli enigmi è dunque assolutamente relativa: il controllo è dato interamente all’utenza. A ciò si aggiunge la presenza di ben cinque protagonisti selezionabili in qualsiasi momento, ciascuno col proprio inventario e con le relative interazioni ambientali ed interpersonali. Fatta conoscenza di un PNG, è difatti possibile ottenere risposte e dialoghi diversi in base al personaggio che si sta utilizzando, regalando al giocatore commenti sempre nuovi sull’universo diegetico. Similmente al deep focus discusso in sede d’analisi con Dark Souls ed Elden Ring, la profondità del contesto narrativo si traduce in un vero e proprio folklore. Spetta al giocatore analizzare i manifesti, interrogare gli abitanti e leggere i libri contenuti nella fornitissima biblioteca della “Edmund Mansion Mansion“, con oltre mille tomi consultabili in tempo reale, al fine di conoscere il passato della misteriosa città.

Thimbleweed Park, tra assurdismo e nichilismo
Un misterioso omicidio colpisce la cittadina americana di Thimbleweed Park. Non è la prima volta che un fatto di cronaca nera scuote l’opinione pubblica. Già anni prima la fabbrica del magnate dei cuscini e della robotica Chuck Edmund aveva preso fuoco, portando con sé tra le macerie la vita di un povero guardiano, incolpato dell’accaduto. Ad investigare, a distanza di qualche giorno dal funerale dello stesso Chuck, giungono sul luogo due agenti federali, Ray e Reyes, ciascuno mosso da un proprio personale tornaconto. Ray infatti vuole scoprire, su richiesta di alcuni industriali giapponesi, il segreto delle IA prodotte da Chuck, mentre Reyes vuole segretamente riscattare il buon nome di suo padre, la guardia incolpata dell’incendio alla fabbrica. Ad aggiungersi a loro ci saranno inoltre Delores, nipote di Chuck, intenzionata a scoprire la verità riguardo allo zio; il fantasma di suo padre, Franklin, fratello di Chuck, morto in circostanze misteriose e desideroso di salutare per un’ultima volta l’amata figlia; e Ransome, uno scurrile ed irriverente pagliaccio cui è stata scagliata una terribile maledizione che gli impedisce di togliere il trucco di scena.
La figura di Chuck, e più in generale la fabbrica, sembrano quindi tessere un fil rouge che collega tutti i personaggi. E’ lì che difatti si concluderà l’avventura dei malcapitati, con una terribile rivelazione: Chuck prima di morire è divenuto un tutt’uno con le sue creazioni robotiche. La sua psiche è stata digitalizzata al solo scopo di porre fine all’esistenza di Thimbleweed Park. Pare infatti che le IA gli abbiano rivelato una sconcertante verità circa la natura della sua esistenza. Tutto ciò che fino a quel momento aveva chiamato “mondo“, altro non era che un’elaborazione virtuale di un’avventura grafica. Il Creato non esiste, tutto è un videogioco e noi, i giocatori, stiamo manovrando le vite dei suoi abitanti. Chuck scopre in parole povere di essere nel Matrix, e prende coscienza della sua natura videoludica. E’ una creazione artistica, non un essere senziente. Le sue azioni sono dettate dal fato, e la sua esistenza non ha senso. Chuck è un Sisifo ribelle. Non vuole accettare lo status quo e tenta pertanto di agire di conseguenza. Le reazioni dei nostri protagonisti, giunti a questa desolante consapevolezza, sono quasi tutte simili. Ray decide di portare a termine il suo compito, consegnando il segreto delle IA ai suoi superiori. Reyes riesce infine a riabilitare la figura del padre, consegnando al giornale locale il vero colpevole dell’incendio. Franklin riesce per un ultimo e fugace attimo a parlare alla figlia Delores, chiedendole scusa per la sua inettitudine e giungendo infine alla pace interiore. Ransome infine chiede come ultimo desiderio di tornare indietro nel tempo per comportarsi meglio, riparando agli errori commessi in gioventù. Gli stessi errori che in passato lo avevano portato ad esser maledetto. Finora, nonostante la nota metalinguistica, parrebbe che Thimbleweed Park risponda a pieno alle direttive dell’assurdismo. I protagonisti d’altronde prendono atto dell’insensatezza del loro mondo e si comportano di conseguenza. Continuano a vivere ignorando la propria condizione esistenziale. Portano a termine i compiti che si erano prefissati. Non pensano alla ribellione, come Chuck. Sarebbe inutile. Nulla cambierebbe.

Ho tuttavia lasciato da parte il personaggio di Delores. Di fronte alla rivelazione dello zio, lei è difatti l’unica a seguire le sue indicazioni. E’ l’unica che, con un gesto nichilista, rifiuta lo status quo. Rifiuta il mondo nella sua virtualità ritenendolo privo di significato. Delores, differentemente dagli altri, è incapace di trovare senso nel Caos, e pertanto lo rigetta nel peggiore dei modi possibili: decide di cancellare il gioco e porre fine alla vita, seppur virtuale, dei suoi abitanti.
Scesa in una versione prototipo dell’avventura grafica, e giunta infine al “core” della stessa, Delores decide scientemente, pur presa da mille incertezze, di chiudere definitivamente il gioco. A un passo dal punto di non ritorno, tuttavia, Thimbleweed Park crasha. Il programma si resetta lentamente, sulla falsariga di una schermata d’avvio di un Commodore 64. L’avventura è conclusa, e ciò che ci si para davanti è ancora una volta il menù principale. Il gesto di Delores, nella sua assurdità, non è contemplato dal sistema.

Ed è qui che Henry Kathman sbaglia nel suo analizzare Thimbleweed Park. Il gesto di Delores non nullifica l’esistenza degli altri personaggi. Il suo negare il senso del mondo non porta noi giocatori a prendere alla leggera le azioni di Ransome o Reyes, tutt’altro. Il gesto di Delores è il vero gesto privo di messaggio. E’ lei il personaggio da commiserare nella sua incapacità di accettare la vita. Lei, come Chuck, è incapace di vedere oltre. Non riesce a comprendere che, seppur virtuale, la vita ha motivo d’esser vissuta. Il fatto che il piano fallisca rafforza inevitabilmente questa mia tesi. Anche il suo gesto, per quanto nichilista, torna a fare i conti con l’assurdismo. Indipendentemente che lo compia o meno, non porta a nulla. Il gioco si riavvia e tutto comincia da capo. La sua rivolta è sedata e gli abitanti di Thimbleweed Park tornano alla loro vita di ogni giorno, in attesa che un qualche giocatore prema ancora una volta “nuova partita”. E sta proprio in questa presa di coscienza, in questo discernimento tra assurdismo e nichilismo, che Ron Gilbert è in grado di localizzare quel “fascino unico” che caratterizzava le avventure di un tempo. Solo assistendo ad un gesto forte come quello nichilista si può apprezzare la quieta grandezza di chi accetta l’assurdità del mondo. Solo nel negare a Dolores il suo desiderio autodistruttivo si può comprendere la portata etica di una così stoica sopportazione del Caos.
A Gilbert è servito dunque uscire dal seminato per identificare cosa renda ancora oggi tanto interessanti le narrazioni dei punta-e-clicca, portando a compimento, con grandissimo stile, questo suo folle esperimento.
Fonti e riferimenti
- “A truly graphic adventure: the 25-year rise and fall of a beloved genre”, articolo di Richard Moss su Ars Technica
- “The Nihilism of Timbleweed Park – Ending Analysis”, video di Henry Kathman su Youtube
- “Teoria del dramma moderno (1880-1950)”, libro di Peter Szondi
- “Il videogioco come arte: lo specifico videoludico”, precedente articolo su GameWriting
Ulteriori risorse per approfondire:
- “Return to Monkey Island: Ironia e Gameplay! Intervista a Ron Gilbert”, video di Everyeye su Youtube
- “From Maniac Mansion to Thimbleweed Park – Ron Gilbert – Talks at Google”, video di Talks at Google su Youtube